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Occidente al tramonto? Presto per dirlo

di Riccardo Sorrentino

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21 gennaio 2010

Sembra un destino ineludibile, il tramonto dell'Occidente. Una volta proiettato nel futuro, il grande slittamento del potere economico mondiale - particolarmente evidente ora, nella prime fasi della ripresa - suggerisce che si chiuderà presto una parentesi durata ben poco: trecento anni, forse duecento, di grande illusione. L'Oriente - lo rivelano le statistiche dello storico dell'economia Angus Maddison - ha conservato un primato economico dai primi anni della nostra era, quando l'impero romano era nel suo pieno vigore, fino al 1700 e oltre e ora potrebbe semplicemente riguadagnare il posto perduto. Soprattutto la Cina: ancora nel 1900 era seconda al mondo - ma solo per prodotto interno lordo, non certo per benessere - dopo gli Stati Uniti e ora nulla sembra poterla fermare. Se si pensa alla quantità di lavoro disponibile e degli investimenti ancora realizzabili, la gara sembra senza storia: nel 2016 Pechino potrà superare Tokyo, nel 2023 i quattro maggiori paesi europei, e nel 2041 la Cina sarà la prima economia del mondo, l'India terza, e l'Italia, la piccola Italia che oggi ha meno di 60 milioni di abitanti, chissà dove sarà finita...
Andrà davvero così? I dubbi sono tanti. Fare previsioni è un esercizio pericoloso, soprattutto quando si proiettano nel futuro le tendenze attuali. Se poi si parla di sviluppo economico le cose si complicano ancor di più. Anche perché spesso si confonde tra aumento del Pil, ricchezza di una nazione, benessere e capacità di sviluppo. Mortale è poi la metafora della gara: se in alcune situazioni belliche e politiche può valere la logica "se io vinco, tu perdi", in economia le cose sono maledettamente più complicate, sia in termini di benessere che in termini di potere economico. Le cifre non dicono tutto.
La storia recente ci insegna anche a non fidarsi troppo delle proiezioni. Nel 1979 il Giappone era il "Number One" designato, come prevedeva un libro di grande successo di Ezra Vogel, professore alla Harvard Business School. Da anni, invece, il paese è in preda a una strana forma di sclerosi, che resiste a ogni stimolo di politica economica. All'inizio degli anni Novanta era invece l'Europa, almeno secondo Lester Thurow del Mit, a essere già "testa a testa" (Head to Head, era il titolo del suo lavoro) con gli Stati Uniti. Nessuna delle due previsioni si è avverata fino in fondo, gli States hanno ripreso a correre - con un po' di doping, ma anche tantissima innovazione - e hanno conservato molti primati.
Dopo Giappone ed Europa, oggi si scommette sulla Cina. O meglio sul Bric: e quindi anche sul Brasile, che sta trascinando dietro di sé un po' tutta l'America Latina sempre più sganciata dal traino degli Stati Uniti; sull'India, che ha punte di eccellenza in grado di competere con i paesi ricchi; sulla Russia, che in realtà sembra già una promessa mancata e potrebbe essere presto "sostituita" dall'Indonesia.
Ce la faranno davvero? Il Giappone e, in parte, l'Europa mostrano cosa accade quando si esaurisce la spinta dell'imprenditorialità imitativa, che adotta tecniche e prodotti introdotti da altri (magari sotto la guida dello stato come è avvenuto per anni soprattutto a Tokyo ma anche a Parigi, a Bonn, a Roma e persino a Londra): quando si cerca di adottare sistematicamente un'imprenditorialità innovativa gli ostacoli diventano enormi. Potrebbe presto incontrarli anche la Cina, per esempio di fronte alla sfida di tener insieme le mille forze centrifughe del suo impero; o l'India e il Brasile che devono liberarsi - forse attraversando una fase di centralizzazione in stile Pechino o Singapore - di un capitalismo ancora oligarchico, d'élite, chiuso e geloso anche nella selezione dei talenti. Senza contare quanto possa essere complicato debellare, in questi paesi, la corruzione o la criminalità organizzata che usano risorse per la redistribuzione predatoria della ricchezza e non per la sua produzione.
Fare dell'innovazione un processo che si autoalimenta non è semplice, e coinvolge - è la lezione di William Baumol, Robert Litan e Carl Shramm in Good Capitalism, Bad Capitalism - una pluralità di fattori, non tutti misurabili. Alcuni di essi, come un ordinamento giuridico formale e la libera ricerca scientifica, sono successi occidentali che richiedono tempo perché si consolidino anche altrove e molti sforzi per conservarli.
Con tanti candidati e tante incertezze l'esito più probabile sarà in ogni caso un mondo multipolare - ma non per questo più stabile - anche dal punto di vista economico. Un pianeta nel quale persino l'Italia potrà continuare ad avere il suo ruolo: quando era terza al mondo, nel 1500, non ha mai superato una quota del 5% del Pil globale, ma la sua forza trainante andava ben oltre, malgrado una struttura politica molto debole. Essere sorpassati non significa infatti cessare di crescere, o perdere benessere o leadership. Forse tra trent'anni alcuni paesi emergenti riusciranno a generare ogni anno valore aggiunto quanto le attuali economie ricche ma, se queste riusciranno a rispondere alla sfida, il tramonto dell'Occidente potrebbe restare quello che è sempre stato: un dotto gioco di parole.
riccardo.sorrentino@ilsole24ore.com

21 gennaio 2010
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